Geogrid: il software CNR per radiografare il sottosuolo

A Napoli un progetto per sfruttare le risorse geotermiche usando il software Geogrid Viewer

È un ritorno di fiamma. Per molti anni l’Italia, e la ricerca italiana, hanno avuto un ruolo centrale negli studi e nell’uso della geotermia. Poi l’avanzata veloce delle nuove rinnovabili (sole e vento in testa) ha distratto l’attenzione. Ora, di fronte alla necessità di arrivare all’obiettivo di zero emissioni nette in meno di 30 anni, si pone la necessità di utilizzare al meglio tutte le fonti rinnovabili. E così la geotermia torna ad avere un ruolo significativo. Ma quale geotermia? Cosa ha prodotto la ricerca in questi ultimi anni e quali prospettive apre?
“Un aspetto importante è la nuova attenzione per la bassa entalpia, cioè per lo sfruttamento del calore contenuto nel primo strato di sottosuolo”, risponde Adele Manzella, una delle ricercatrici del Consiglio Nazionale delle Ricerche che da tempo segue il settore. “La bassa entalpia può essere usata per dare calore agli edifici e c’è una ricerca continua per migliorare queste prestazioni che possono essere utilizzate per una larga gamma di impieghi. Ad esempio in Toscana viene usata a Larderello per il ciclo produttivo della birra, in altre località per i processi di vinificazione e per la stagionatura del pecorino in ambienti termicamente controllati”.

Il calore superficiale del suolo può essere impiegato anche in edifici storici in cui ci possono essere vincoli architettonici che impediscono l’uso di pannelli solari. “La grande sfida oggi”, continua Manzella, “è sulla produzione di elettricità e calore per grandi applicazioni: ad esempio impianti industriali che richiedono temperature elevate e hanno bisogno di energia 24 ore su 24. La geotermia è un supporto prezioso perché può garantire, a differenza di altre fonti rinnovabili, la continuità nella generazione di elettricità e nella produzione di calore. In questo senso può sostituire il gas nel ruolo di sostegno a un sistema elettrico in cui le rinnovabili non programmabili svolgono un ruolo crescente”.

In entrambi i casi, per l’alta e per la bassa entalpia, la ricerca gioca un ruolo fondamentale. Nel caso della bassa entalpia uno dei punti critici è lo studio delle modalità per utilizzare il calore del sottosuolo, senza alterarne l’equilibrio termico.
Interessante da questo punto di vista è il progetto GeoGrid, finanziato con fondi FESR 2014/2020 dalla Regione Campania e realizzato da un consorzio che conta, oltre alla Regione, 10 aderenti tra aziende ed enti di ricerca (Consiglio Nazionale delle Ricerche, Università degli studi di Napoli “Parthenope”, Università degli studi di Napoli “Federico II”, Università degli studi della Campania “Vanvitelli”, Università degli studi del Sannio, Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, CrdC Tecnologie Scarl, Graded S.p.A., Aster S.p.A., e Sudgest Scarl).
Uno degli obiettivi di questo progetto è lo sviluppo della capacità di fare una sorta di “radiografia” del sottosuolo – attraverso analisi chimiche e fisiche delle acque sotterranee e analisi geofisiche – per ricostruisce un modello geotermico che permetta di valutare la quantità di calore o di acqua che si può prelevare dal suolo o dalle falde acquifere sotterranee in un determinato luogo senza raffreddarli. Sensori innovativi, fibre ottiche, un sofisticato software per lo sviluppo di immagini virtuali tridimensionali per la rappresentazione dei dati sono parte integrante di questo capitolo di ricerca. Così come il progetto di efficientamento energetico di un intero quartiere utilizzando il calore geotermico per produrre elettricità, calore e raffrescamento.

“Abbiamo lavorato per sviluppare un software specifico, il ‘Geogrid Viewer’, attraverso il quale è possibile ottenere una visione 3D virtuale e molto fedele dei serbatoi geotermici”, spiega Marina Iorio, ricercatrice Cnr-Ismar e responsabile Cnr del progetto. “È stato così possibile, grazie all’impegno dei partner di progetto, sviluppare un prototipo di impianto di produzione di energia elettrica e termica grande quanto un piccolo container, quindi facilmente installabile in un giardino o nel cortile di un fabbricato. Il sistema si basa su scambiatori di calore – un sistema che serve per trasferire energia termica da un fluido a temperatura maggiore ad uno a temperatura minore – e sulla capacità di analisi del potenziale geotermico dei luoghi”.

Dunque utilizzando i vari prodotti ottenuti dal progetto Geogrid, aggiunge Marina Iorio. Due dei più significativi sono quindi il “Geogrid Viewer’ che permette di tracciare la “radiografia” del sottosuolo per valutarne il potenziale geotermico (la quantità di calore disponibile cambia da luogo a luogo) e l’Energy box, il prototipo di un impianto di dimensioni ridotte e quindi di grande duttilità d’uso. L’Energy box consente di monitorare sia l’efficienza che il corretto funzionamento di un impianto di geoscambio. Il prototipo è stato testato con successo presso il cantiere della stazione Municipio della metropolitana di Napoli.

“Tra l’altro la metropolitana di Napoli dispone già di canalette, realizzate in fase di costruzione, che potrebbero oggi essere utilizzate per far passare i fluidi necessari al geoscambio”, continua Marina Iorio. “Si potrebbe così allargare a una buona parte della città il sistema che è già stato sperimentato, sempre a Napoli, durante il restauro del convento dei SS. Marcellino e Festo”.
L’impianto funziona sia in modalità invernale, prelevando il calore del sottosuolo e cedendolo all’aria interna agli edifici, che estiva, con un processo inverso che sfrutta il fatto che la temperatura del suolo è maggiore rispetto all’aria esterna d’inverno ed è minore d’estate (la temperatura è a 16 gradi al di sotto dei 5 metri e aumenta man mano che si scende nel sottosuolo).

“Se tutti gli edifici sostituissero i sistemi tradizionali di condizionamento e produzione di acqua calda alimentati da combustibili fossili con pompe di calore e sistemi di geoscambio per sfruttare la differenza di temperatura tra suolo e aria si potrebbe arrivare a risparmiare ogni anno fino a 3 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio”, calcola Marina Iorio.

Fonte foto: Orticalab