Ricerca, la provocazione di Tullio Fanelli: “Va riconquistata la fiducia della politica”

Intervista a Tullio Fanelli. dirigente Enea ed ex sottosegretario all’Ambiente.

Il mondo della ricerca riconquisti la fiducia della politica. Non è una provocazione quella che fa Tullio Fanelli dell’Enea, per il quale la scarsità di investimenti in ricerca e sviluppo che caratterizza il nostro paese non si spiega solo con la poca lungimiranza della classe politica, con la sua miopia nel non vedere al di là della prossima scadenza elettorale, ma anche con una “silenziosa sfiducia nel fatto che gli investimenti pubblici per la ricerca possano davvero produrre benefici per il Paese”. “In sostanza – dice Fanelli – la politica percepisce, più o meno consciamente, che il modello su cui è fondato il sistema della ricerca in Italia non funziona”. Il motivo principale: la mancata capacità di generare investimenti produttivi e quindi di creare opportunità di mercato. È necessaria allora una riforma complessiva che “punti a una maggiore connessione tra mondo della ricerca pubblica e sistema produttivo; una riforma che incentivi la ricerca industriale fatta insieme agli Enti pubblici, su programmi condivisi e con impegni condivisi”. Come fare? Qualche buona idea ci arriva dall’Europa e dai paesi nostri principali concorrenti.

Non sempre i tempi della decisione politica e della visione scientifica coincidono. Ci sono situazioni in cui questa distanza è maggiore e potrebbe compromettere la qualità della ricerca italiana?
Purtroppo i tempi della politica non sono l’unico problema della ricerca italiana: l’annosa scarsità di risorse e la crescente “distanza” con il mondo imprenditoriale sono fenomeni altrettanto gravi. È più che lecito chiedersi perché in Italia, nonostante a livello programmatico sia unanime il consenso politico sulla necessità di incrementare gli investimenti in ricerca, la spesa per R&D in rapporto al PIL si ponga molto al di sotto dei nostri principali concorrenti. Anche gli strumenti di incentivazione pubblica della ricerca industriale sono discontinui e di dimensione economica insufficiente: non è casuale, ad esempio, che nella Worldwide R&D incentives reference guide 2013-2014 siano analizzati gli incentivi di 34 Paesi, di cui 14 dell’U.E., ma l’Italia non ci sia. Per alcuni la ragione dell’inerzia politica è dovuta meramente a convenienze elettorali, ovvero al maggiore effetto in termini di consenso di misure alternative. Ma non è credibile che questa possa essere l’unica motivazione. In realtà esiste nella classe politica, o almeno in una parte di essa, una silenziosa sfiducia nel fatto che gli investimenti pubblici per la ricerca possano davvero produrre benefici per il Paese, e non solo che possano farlo in tempi compatibili con i cicli elettorali. Una sfiducia peraltro non infondata: è ovvio che i principali effetti economici della ricerca sono connessi solo all’eventualità che si attivino ulteriori investimenti produttivi successivi. Tale eventualità non dipende solo dal successo delle attività di ricerca, ma anche dall’interesse delle imprese ai risultati e soprattutto dalla possibilità che gli investimenti produttivi siano attivati in Italia. In effetti spesso il maggior beneficiario della ricerca italiana non è l’Italia perché gli investimenti, la produzione, l’occupazione, gli utili si allocano in altri Paesi dove possono essere massimizzate le convenienze degli imprenditori. In sostanza la politica percepisce, più o meno consciamente, che il modello su cui è fondato il sistema della ricerca in Italia non funziona.

Ci sono invece esempi in cui i tempi della politica e quelli della programmazione scientifica riescono a incontrarsi, degli esempi positivi? E’ possibile individuare quali strumenti hanno favorito una maggiore collaborazione?
Gli esempi positivi per fortuna sono ancora numerosi e riguardano soprattutto i casi in cui l’eccellenza scientifica italiana ha incontrato imprenditori con il coraggio e le risorse necessarie ad investire con uno sguardo al futuro; è il caso del solare termodinamico, della cosiddetta “chimica verde” o della fusione nucleare, solo per citare i più noti. Non è un caso che molti di queste esperienze vedano coinvolto un Ente, l’ENEA, che ha nella sua tradizione lo stretto rapporto con il mondo delle imprese.

Quali sono i possibili  interventi strutturali che potrebbero facilitare, nei tempi e nei modi, l’avvio dei progetti di ricerca, soprattutto per quanto riguarda la ricerca di sistema?
Serve una riforma che, in linea con gli obiettivi della strategia europea Horizon 2020, punti a una maggiore connessione tra mondo della ricerca pubblica e sistema produttivo; una riforma che incentivi la ricerca industriale fatta insieme agli Enti pubblici, su programmi condivisi e con impegni condivisi; una riforma che consenta di qualificare gli investimenti di ricerca per cogliere non solo i tradizionali obiettivi di costo e di qualità ma anche i requisiti energetico-ambientali che saranno in misura crescente il nuovo valore delle produzioni. Decisivo, nella definizione del nuovo modello, è il nuovo ruolo da attribuire agli Enti pubblici di ricerca: è proprio attraverso questi soggetti che è possibile far sì che gli investimenti pubblici in ricerca attivino ulteriori investimenti produttivi. Infatti se le risorse pubbliche, unitamente ad un adeguato cofinanziamento delle imprese (che rappresenta la garanzia del loro reale interesse), fossero destinate ad attività di ricerca industriali svolte congiuntamente con un Ente di ricerca, sarebbe possibile: massimizzare il tasso di successo, grazie alla elevata qualificazione dei ricercatori; indirizzare la ricerca verso settori nei quali esistano in Italia l’interesse e le capacità industriali per sfruttarne i risultati; condizionare i finanziamenti allo sfruttamento dei risultati di ricerca solo in Italia almeno per un certo periodo di tempo (come fanno già la Francia e la Germania). In sostanza i programmi di ricerca devono poter contare sulla disponibilità delle imprese a tradurre in investimenti e occupazione gli eventuali risultati, e questa disponibilità deve essere misurata non solo con la partecipazione ai costi di ricerca, pure indispensabile, ma anche attraverso precisi impegni ad utilizzare i risultati in Italia. La “ricerca di sistema”, almeno per alcuni aspetti, è stata ed è ancora un tentativo di orientare la ricerca energetica alle attività di maggiore interesse delle imprese; non sempre, nella sua applicazione, essa ha riscosso il pieno consenso dei ricercatori a causa dei vincoli, in termini di obiettivi e tempi, che ha imposto alle attività. Ma questo modello non è una deminutio per la ricerca, perché i ricercatori non sono al servizio delle imprese ma dello sviluppo del Paese. Solo in questo modo è possibile restituire alla politica la fiducia nel fatto che destinare risorse pubbliche alla ricerca è il miglior investimento per dare al nostro Paese una prospettiva di sviluppo basata su un crescente contenuto di innovazione.